Dopo un lungo silenzio dovuto ai miei molteplici impegni e ad un momentaneo inaridimento del mio spirito critico, finalmente (o purtroppo per voi??) eccomi tornata con una nuova recensione. Il film di cui voglio parlare è “Italiano medio”, di Maccio Capatonda, uscito in questi giorni al cinema.
Sono partita con l’idea che sarebbe stato o una schifezza insopportabile, oppure una commedia da piegarsi in due dalle risate, e adesso posso dire che non si è trattato né dell’una né dell’altra cosa, ma che si è avvicinato molto alla seconda. Anche se d’istinto, prima ancora di andare al cinema, propendevo decisamente per la schifezza. È proprio questo il rischio in cui incorrono i film che mettono in ridicolo qualcosa (mentalità, mode, abitudini, aspetti della società…): di essere fraintesi completamente. Guardo il trailer di “Italiano medio” e cosa mi trovo davanti? Un idiota erotomane che urla tutto il tempo, volgare, vestito in modo assurdo e attorniato da gente del suo pari. Il primo pensiero è che si tratti di una burinata all’italiana, un prodotto commerciale infarcito di battute infantili e triviali pensate per fare ridere lo stesso pubblico dei “cinepanettoni”. In realtà, immaginando ciò ho commesso l’errore di sovrapporre l’essenza del film esattamente all’essenza di ciò che il film vuole criticare e mettere in ridicolo.
Nel nuovo DSM V la catalogazione delle malattie psichiatriche non troverete questa sindrome.
Però esiste e come. Quante ragazze hanno difficoltà a creare relazioni d’amore durature. Riescono ad avere magari storie brevissime, più che altro legate al sesso, ma non storie che persistono nel tempo.
Oggi vorrei parlare di uno dei miei film preferiti: “Arancia meccanica”. Immagino che la stragrande maggioranza di voi lo abbia visto poichè è un cult, per questo mi piacerebbe che diceste la vostra a proposito delle riflessioni che esporrò.
Per me si tratta di un autentico capolavoro. Quando uscì, nel 1971, suscitò grande scalpore per le esplicite scene di violenza, ed effettivamente diverse parti sono estremamente crude, però io penso che l’impronta estetizzante che Kubrick ha voluto dare alla sua opera, ne stemperi notevolmente il lato tragico.
Non sono un’esperta di sesso e non sono un’esperta d’amore, ma c’è una cosa che conosco bene: le delusioni. Non è un guaio non riuscire ancora a trovare l’uomo giusto, ma è un grande casino quando quello perfetto per te ti scivola dalle mani e recuperarlo è molto difficile. Per non parlare del classico tradimento o del non-sei-tu-sono-io-devo-solo-stare-un-po’-solo. Queste situazioni, purtroppo, accomunano me ad una grande porzione di donne. E anche a molti uomini. Subentrano nella nostra mente diverse domande: Sono destinato alla solitudine? Sono destinato alla sofferenza? Farò mai più sesso?
Ieri ero a cena in un ristorante che, negli anni '90, pullulava di diversi VIP: personaggi della TV, operatori del settore enogastronomico e politici. Ora la situazione è ben diversa, anche se all'epoca il debito pubblico era già ben presente e “galoppante”... solo “ce se ne fregava altamente”!
Dopo essermi assentato per un po’ dalle pagine di Manidistrega, riprendo finalmente la scrittura della mia rubrica trattando di un argomento che, dopo il Vino e il Cibo, rappresenta per me il terzo caposaldo della vita: il Sesso!
L’emancipazione della donna è un tema da tempo scottante. Dalla fine del ‘700 si avvertono i primi echi di quel femminismo che farà tanta strada, ma che già bolle in pentola da un po’.
Voglio, per questa volta, soffermarmi sulla donna del 1880, che pian piano prende coscienza di sé. In senso letterale. La rivalsa femminile passa attraverso la conoscenza del proprio corpo e soprattutto la scoperta che anche la donna, come l’uomo, può provare piacere. Magari è un processo più difficile, ma si sa, non esiste nessuna femmina facile.
Qualche giorno fa sono andata al cinema a vedere “The Sessions”, un film uscito nel 2012 che parla di Mark O’Brien, poeta e giornalista di 38 anni, costretto a vivere attaccato a un polmone d’acciaio a causa di una grave forma di poliomelite che, da bambino, l’ha reso paralitico.